a cura di Antonello Rizzo
Dove abitava e che lavoro faceva prima che iniziasse l’Assedio?
Sono nata in Ucraina. Nel 1939, quando avevo 17 anni, sono venuta a Leningrado per studiare e lavorare, da uno zio che aveva lasciato l’Ucraina prima di me. Ho trovato un lavoro da cameriera in una famiglia benestante e ho cominciato a vivere con loro, mi hanno trovato lavoro in una fabbrica di mobili e hanno sempre cercato di aiutarmi in tutti i modi. Nel 1940 è iniziata la guerra con la Finlandia, volevo andare via da Leningrado, mio zio mi trovò anche i soldi per il viaggio, ma era già troppo tardi. E nel '41 cominciò la Grande Guerra Patriottica.
Durante l’Assedio rimase all’interno della città? Fu mobilitata anche lei per la difesa?
Nell'autunno del '41 cominciarono a mobilitare per la difesa in diverse parti della provincia di Leningrado (Kingisepp, Šuvalov, Dubiny), dove capitava di abitare per mesi. Le donne e gli uomini rimasti a lavorare nelle fabbriche scavavano fossati, fossi anticarro. A partire dall’aprile del '42 hanno cominciato a mandarci all’estrazione della torba che serviva alla centrale elettrica per procurare energia per la città. Lavoravamo 14-15 ore al giorno, e con le tessere annonarie per i lavoratori ricevevamo a testa 250 grammi di pane al giorno e una bottiglia di vodka che scambiavamo con i soldati con la farina. A casa (alle Narvkie vorota) tornavamo a piedi sotto i bombardamenti: i trasporti non funzionavano più. In città continuavo a lavorare alla stessa fabbrica di mobili, che si era messa a produrre materassi per i soldati, cuscini per il fronte, scatole per le mine.
Che ricordo ha dell’inverno del 1941-1942?
L'inverno fu freddissimo, si arrivava a -30°/-40°. Ai lavori per la difesa la gente moriva congelata: se si sdraiavano un po' per riposarsi, si addormentavano e morivano. In città si usavano le slitte per portare i malati all’ospedale Troickij e i morti al cimitero. Si tenevano aperte le porte negli appartamenti: passavano le brigate speciali per controllare se non ci fossero dei morti. Ci riscaldavamo come potevamo, bruciavamo mobili e libri. L’acqua non c’era, si andava alla Neva, facevamo i buchi nel fiume ghiacciato per procurarci l’acqua. Di pane ce n'era poco, ci toccava prepararci in fabbrica una zuppa con la colla da falegname.
Ha visto morire tante persone?
Si vedevano morti e malati dappertutto: molti morivano sotto i bombardamenti, ma la maggior parte, credo, moriva semplicemente di fame sia in città che ai lavori per la difesa.
Qual è stato il suo pensiero ricorrente durante i 900 giorni dell’Assedio?
Il pensiero principale durante l’Assedio era il pane. Ai lavoratori all'inizio si davano 250 grammi di pane a testa al giorno, ai non lavoratori 25 grammi, ma la quantità diminuiva costantemente. Per sopravvivere, bisognava saper dividere il pane, affinché bastasse per tutto il giorno: colazione, pranzo, cena. Chi non ci riusciva, e mangiava tutto subito, moriva presto. D’estate, oltre al pane, mangiavamo erbe selvatiche e bacche, ma non si poteva andare a raccogliere niente nei boschi, perché erano zone militari. Con un'erba selvatica si faceva la farina che si usava per preparare le focacce o le minestre. I bombardamenti provocarono incendi ai depositi di zucchero Babaevskie, non rimase più nulla, ma la gente veniva lì e succhiava la terra che aveva assorbito lo zucchero.
Dalla disperazione, al suono dell’allarme non si correva più al rifugio, alcuni dicevano: "Succeda quel che succeda!".
Dalla liberazione aspettavamo una cosa sola: che aggiungessero del pane.
Non avevate pensieri di resa, affinché tutto finisse presto?
No, non avevamo mai di questi pensieri. Al contrario, eravamo sempre sicuri che avremmo vinto: noi avevamo ragione, difendevamo semplicemente la nostra patria. Non si poteva arrendersi al nemico in nessun caso.
Cosa ricorda del giorno in cui fu tolto l'Assedio?
Non mi ricordo troppo bene del giorno stesso, perché in ogni caso la guerra continuava ancora. Aggiunsero un po’ di pane, ma le tessere rimasero anche nel dopoguerra. Ma mi ricordo bene che tutti gli avvenimenti importanti erano annunciati per radio: l’allarme, quanto pane si dava quel giorno, la situazione al fronte e la liberazione. Era l’unico legame col mondo, mi ricordo bene la voce dello speaker che lavorò a Leningrado tutto il tempo della guerra: si chiamava Levitan. La sua voce e il suono dell’allarme anche adesso li sento nelle orecchie (avvicina le mani alla testa e chiude le orecchie), come se fosse ieri.
Intervista di Antonello Rizzo, con la collaborazione di Natal'ja Samulevič, nipote della sopravvissuta - San Pietroburgo, gennaio 2009
a NADEŽDA GRIGOR'EVNA PIŠČUGINA (decorata nel 1943 per la difesa della città)